Le Capitali Europee della Cultura sono uno dei progetti culturali più duraturi e rappresentativi dell’Unione Europea. Nate nel 1985 per rafforzare il senso di identità europea, nel tempo hanno assunto un ruolo sempre più strategico: da semplice celebrazione a strumento di rigenerazione urbana, innovazione sociale e sviluppo locale. Ne abbiamo parlato con PierLuigi Sacco, economista, docente all’Università di Chieti-Pescara, già consigliere speciale per la cultura della Commissione Europea e oggi presidente del comitato per la Capitale Europea della Cultura francese 2028, Bourg-en-Bresse, per capire la portata di questo genere di eventi e come valorizzarne capacità generativa.
Professor Sacco, come si è evoluto il programma delle Capitali Europee della Cultura dalla sua nascita a oggi?
L’iniziativa ha attraversato tre fasi. Nella prima, nata negli anni ’80, era essenzialmente autocelebrativa: serviva a celebrare l’identità europea e il suo patrimonio culturale. All’epoca si chiamava “Città europea della cultura”, non “Capitale”. Il vero punto di svolta arriva con Glasgow nel 1990, una città in profonda crisi sociale che, grazie al titolo, avvia un processo di rigenerazione profondo, divenendo attrattiva anche turisticamente. È lì che si capisce per la prima volta che questo può essere uno strumento potente di trasformazione urbana e sociale.
E cosa cambia da allora?
Negli anni Duemila si entra nella seconda fase: l’iniziativa viene interpretata sempre più come occasione per affrontare sfide urbane complesse. Dal 2008, con l’introduzione della competizione tra città, si inaugura una terza fase: non si designano più le città a livello nazionale, ma si gareggia. Questo ha innalzato enormemente il livello della progettazione e favorito approcci innovativi, orientati non tanto al patrimonio esistente, ma alla capacità di trasformare il territorio.
Quali sono oggi gli effetti attesi da una Capitale della Cultura?
Parliamo di rigenerazione urbana, certo, ma anche sociale e simbolica. Un esempio è Chemnitz, in Germania orientale. È un vero e proprio baluardo di Alternative für Deutschland e il fatto che una città così euroscettica diventi Capitale Europea della Cultura, con un programma che sottolinea i valori europei, è molto significativo. Sta già producendo effetti concreti sul territorio: migliora la percezione dell’Europa come qualcosa di vicino e utile, crea orgoglio, identità, visibilità. È un segnale importante anche per la coesione europea. Un altro esempio è Livorde, città della Frisia, una delle regioni più periferiche e marginali dell’Olanda: dopo essere stata capitale nel 2018, la città e con essa tutto il territorio è diventata un centro culturale europeo grazie a un lavoro straordinario, soprattutto sui temi della sostenibilità e dell’innovazione culturale. Prima nessuno la conosceva, oggi è un modello. A Bourg-en-Bresse, la città francese che presiedo per il 2028, vogliamo realizzare il primo grande evento culturale europeo a impatto ambientale zero: una sfida enorme, che impone scelte tecniche e infrastrutturali molto avanzate. Ma anche obiettivi meno ambiziosi possono essere validissimi, se ben pensati e utili alla comunità locale.
Quanto costa essere Capitale della Cultura? E chi finanzia?
L’Unione Europea dà un premio simbolico di un milione di euro alla fine, se il programma viene effettivamente realizzato. Tutto il resto è a carico del territorio. Si parla di cifre rilevanti: per i soli eventi negli ultimi anni si va dai 40 ai 60 milioni, ma se si vogliono fare anche interventi infrastrutturali si arriva anche oltre i cento milioni. È quindi essenziale essere capaci di attrarre risorse pubbliche e private, ma anche di pensare a una governance di lungo periodo. Un esempio è la Fondazione Matera-Basilicata 2019, nata per accompagnare l’esperienza della Capitale anche oltre il suo anno di svolgimento. Questo è fondamentale: non si tratta solo di finanziare eventi per dodici mesi, ma di creare una legacy, un’eredità strutturale e culturale che continui ad alimentare il territorio.
Cosa spinge una città a candidarsi, e cosa distingue le città che riescono davvero a sfruttare l’occasione da quelle che no?
Le motivazioni possono essere diverse: promuoversi, riscattarsi, attrarre attenzione europea. Ma bisogna sapere a cosa si va incontro. È un processo complesso, serve un’enorme mole di lavoro e competenze specializzate. Inoltre, solo una città vince. Per questo dico sempre che è essenziale avere un piano B: capire cosa fare se non si vince, come valorizzare comunque il lavoro fatto. Un progetto ben costruito può generare effetti positivi anche senza il titolo.
Ha accennato prima alla legacy: quanto è importante il “dopo”?
È tutto lì. L’anno della Capitale è importante, ma il vero banco di prova viene dopo. Le città che hanno avuto più successo sono quelle che hanno costruito competenze, fiducia e reti sul territorio. Il problema non è quanti eventi si fanno o quante stanze d’albergo si riempiono: è se quegli alberghi continueranno a riempirsi negli anni successivi, se si è creato un ecosistema culturale vivo e radicato.
Il 2033 sarà l’anno dell’Italia. Un anno speciale anche per altre ragioni, giusto?
Sì, sarà l’ultimo anno dell’attuale programmazione europea. Non sappiamo ancora se il programma delle Capitali proseguirà oltre, e con quali obiettivi. Alcune discussioni sono già iniziate in sede europea, anche su impulso delle Capitali attuali. Questo fa del 2033 un anno chiave: potrà essere l’atto finale o un ponte verso una nuova fase. In entrambi i casi, l’Italia avrà una grande responsabilità.