La letteratura sullo sviluppo sostenibile e sui vari accordi internazionali, dall’Earth Summit delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro nel 1992 agli Accordi di Parigi del 2015, è ormai enorme. Alcuni attribuiscono l’insostenibilità dello sviluppo all’esplosione demografica. Altri, alla mancata evoluzione delle industrie dei Paesi sviluppati che, invece di innovare i vecchi processi produttivi inquinanti ed energivori – si pensi alla produzione dell’acciaio – li hanno trasferiti in Cina e in India dove l’inquinamento dell’aria raggiunge livelli che in Europa o negli USA sono considerati intollerabili.
Dunque, propongono in molti, la via di uscita dalla crisi ambientale starebbe nella decrescita: sostituire lo stile di vita consumistico con uno più frugale basato su consumi di energia, cibo, acqua, suolo, beni materiali e servizi molto più bassi di quelli cui siamo abituati per esempio in Europa.
Ora, questa scelta non è solo priva di attrattiva, ma rischia di essere del tutto inutile. Nel mondo, sono miliardi le persone ancora prive di servizi essenziali come l’elettricità o l’accesso all’acqua potabile. Legittimamente, chiedono di poterne disporre, determinando un continuo aumento dei consumi di energia e risorse che supera di ordini di grandezza qualsiasi piccola diminuzione dei consumi di quella ridotta frazione delle popolazioni nordamericane o europee che accetterà di darsi alla «decrescita».
D’accordo con il punto di vista del grande sociologo e parlamentare tedesco Hermann Scheer, questo libro sostiene che l’intera questione della sostenibilità dello sviluppo ha una singola causa fondante: l’uso dei combustibili fossili e dell’uranio per generare l’energia di cui l’umanità ha crescente bisogno ogni anno. Scriverà Scheer in A Solar Manifesto nel 2005:
Discutere la questione energetica come una questione a sé stante è un’illusione intellettuale. Le emissioni di CO2 non sono il solo problema dell’energia fossile. La contaminazione radioattiva non è il solo problema dell’energia atomica. Moltissimi altri pericoli sono causati dalle energie fossili e atomica: dalle città inquinate all’erosione delle aree rurali; dall’inquinamento dell’acqua alla desertificazione; dalle migrazioni di massa agli insediamenti urbani sovrappopolati fino al declino della sicurezza degli individui e degli Stati. Poiché è l’attuale sistema energetico che giace alla radice di questi problemi, le fonti rinnovabili sono la soluzione a tutti questi problemi.
Questo è il punto. Da qui bisogna partire. E qui occorre agire. La buona notizia di questo libro è che adesso possiamo farlo. Prima però, al di là di qualsiasi considerazione di natura ambientale, è importante comprendere perché la transizione energetica alle fonti di energia rinnovabile è una comune e urgente necessità di tutti i popoli.
In breve, il ritorno energetico (EROI, energy return on invest- ment) – vale a dire il rapporto tra la quantità di energia prodotta e la quantità di energia impiegata per produrla – del petrolio è ormai di poco superiore alla critica soglia di 10. Questo significa che oggi per estrarre dieci barili di petrolio greggio convenzionale occorre investire in media almeno un barile di petrolio. Appena cin- quant’anni fa, con lo stesso barile investito, se ne estraevano cento.
Man mano che viene estratto, il petrolio si esaurisce. In Europa, nel Mare del Nord la produzione è crollata del 50 per cento fra il 2002 e il 20142. Nel 2011 l’Europa ha speso 499 miliardi di euro per importare gas e petrolio, il 3,9 per cento dell’intera ricchezza prodotta. Nel 1999 erano 90 miliardi. L’intera strategia comunitaria che porta con le varie Direttive fino agli edifici «a consumo qua- si zero», nasce dall’esigenza di non utilizzare più il gas e il petrolio per riscaldare abitazioni e uffici, perché entrambi servono invece per l’industria e per i trasporti.
Il petrolio dobbiamo quindi andarlo a cercare a grandi profondità marine, come faceva la piattaforma Deepwater Horizon che nel 2010 darà luogo al più grave incidente petrolifero della storia, oppure in zone prima considerate impensabili (come l’Artico). Oppure, dobbiamo iniettare grandi quantità di acqua e sostanze chimiche tossiche nel terreno per estrarre il cosiddetto petrolio di scisto come combustibile solido – il kerogene – e quindi liquefarlo, dalle rocce porose di scisto in numerosi vastissimi campi sparsi negli stati centro-orientali degli USA. Forzato a emergere attraverso tecniche particolari e molto costose chiamate retorting, il nuovo petrolio di scisto si è dimostrato una risorsa formidabile, in grado di aggiungere al mercato dell’oro nero ben cinque milioni di barili al giorno partendo da zero nel 2009 e accelerando a ritmi vertiginosi dal 2011. Praticamente la metà degli oltre dieci milioni di barili al giorno in più di cui il mondo ha avuto bisogno fra il 2005 e il 2014 sono sta- ti forniti dal petrolio di scisto.
Ma per il petrolio di scisto e per le altre risorse non convenzionali, come per esempio le sabbie bituminose del Canada, dal punto di vista energetico va ancora peggio: con un barile investito se ne estraggono due o tre. D’altra parte, l’aumento della popolazione globale richiede sempre più petrolio per mantenere il trend fra crescita economica e crescita della popolazione mondiale. Il trend in questione, che abbiamo identificato insieme al team di Francesco Meneguzzo al Cnr di Firenze, segue una legge di potenza. In altre parole, si tratta di una legge molto lontana dall’essere lineare, per cui a un raddoppio della popolazione conseguirebbe un raddoppio dei consumi energetici.
In breve, applicando questa relazione di crescita economica naturale, legata cioè allo sviluppo demografico della popolazione, si scopre che per sostenere la crescita la popolazione mondiale in continuo aumento ha bisogno di consumare anno dopo anno oltre un milione di barili di petrolio al giorno in più. Questo significa che nel 2025 il mondo avrà bisogno di 12 milioni di barili di petrolio al giorno in aggiunta ai 90 consumati nel 2015. Dove prendere tutto questo petrolio, semplicemente, non lo sappiamo.
Secondo la Banca del Canada il prezzo del petrolio necessario affinché siano economicamente sostenibili non solo il petrolio di scisto Usa, ma anche quello estratto dalle sabbie bituminose dell’Alberta in Canada (7,5 milioni di barili al giorno), è di 80 dollari al barile.
La soluzione, dicono alcuni, sta allora nel gas naturale: il metano di cui sono ricchissimi l’Iran, la Russia, il Qatar, l’Algeria e la Libia. E di cui sono stati scoperti da poco due enormi giacimenti nel Medi- terraneo: uno di fronte all’Egitto; e l’altro poco distante dalle coste siriane, libanesi e israeliane. Ma per quanto crescente, la produzione globale di gas naturale non sarà mai sufficiente a compensare il calo della produzione petrolifera. E nemmeno di quella del carbone.
La questione centrale è come assicurare alla crescita mondiale tutta l’energia di cui ha bisogno a costi bassi. In breve, l’analisi del team del Cnr mostrava come, a fronte del fabbisogno globale di petrolio in forte crescita, il suo costo non dovrebbe essere superiore ai 40 dollari al barile al fine di non indurre una nuova recessione globale. D’altra parte, per disporre della quantità di petrolio richiesta per la crescita globale è necessario, come abbiamo visto sopra, che il suo prezzo superi almeno gli 80 dollari al barile: ma i Paesi consumatori sono in grado di pagare questi prezzi senza entrare in crisi e quindi riportare automaticamente i prezzi verso il basso?
La storia ci dice che ogni volta che il prezzo del petrolio è salito oltre gli 80 dollari al barile, l’economia globale è entrata in crisi e spesso in recessione: così dopo la Rivoluzione iraniana del 1979-80, dopo il picco del prezzo del 2008, e infine dopo la fase di prezzi molto elevati del 2011-145.
Il mondo ha sete di petrolio. Ma di petrolio a basso costo: a un costo inferiore ai 40 dollari. Che non abbiamo più.
Abbiamo petrolio ad alti costi di estrazione che non può tollera- re i bassi prezzi di vendita correnti. Le condizioni di prolungata de- pressione economica globale che ha causato il crollo dei commerci mondiali e spinto il prezzo del petrolio a toccare proprio una media di 40 dollari al barile nel 2016, a fronte dei 110 dollari del 2014, hanno portato in perdita i bilanci delle grandi società petrolifere, determinando gravi tensioni economiche e sociali nei Paesi che di petrolio vivono come il Venezuela e l’Arabia Saudita.
L’ex società petrolifera di Stato italiana, per esempio, ha archiviato il 2016 con una perdita di 1,464 miliardi di euro (e il 2015 con una perdita che ha sfiorato i 9 miliardi); quando quella britannica riportava una perdita di 6,5 miliardi di sterline, la peggiore della sua storia centenaria, e quella brasiliana di 4,8 miliardi di dollari. Con un taglio generalizzato degli investimenti da parte del- le società petrolifere, e il licenziamento di migliaia di lavoratori in tutto il mondo.
In breve, l’erodersi di questo singolo parametro – il ritorno energetico sull’investimento energetico – ha fatto sì che le esigenze dell’economia globale siano divenute in contrasto con quelle del comparto petrolifero, che pure è stato ed è parte centrale dell’economia di tutti i Paesi del mondo: sia di quelli economica- mente sviluppati sia di quelli in via di sviluppo.
La via di uscita escogitata per fronteggiare il crollo della frazione di petrolio nel mix energetico complessivo è stata semplice, quanto irrimediabilmente destinata ad avere gravi conseguenze: debito e deindustrializzazione. Infatti, mentre aumentava in modo significativo lo stock di debito globale, misurato in termini di liquidità circolante in tutte le sue forme, il valore aggiunto prodotto dall’industria, come percentuale del prodotto interno globale, si contraeva fino a raggiungere una cifra inferiore al 28 per cento nel 2014.
L’indice Baltic Dry, che dal 1985 è riferito ai noli marittimi per il trasporto con le grandi navi cargo delle commodities agricole e industriali, è un solido indicatore dello stato di salute dell’economia reale. L’indice è passato dal picco di 11.793 raggiunto il 20 maggio del 2008 a un valore di 290 raggiunto l’11 febbraio 2016 a causa del crollo della domanda di ossido di ferro e di carbone: un calo superiore al 97 per cento.
In breve, il mondo si trova di fronte a un dilemma. O petrolio a prezzi alti e remunerativi, e recessione economica globale; oppure, petrolio a prezzi insostenibilmente bassi con boom del debito, finanziarizzazione dell’economia, calo continuo della produzione industriale e altre indesiderabili conseguenze sociali.
In altre parole, la scelta che si pone è tra due alternative: proseguire l’incremento del debito finanziario fino all’inevitabile collasso, oppure sacrificare una parte consistente delle risorse degli Stati, incluse naturalmente quelle energetiche, per lanciarsi in una transizione accelerata verso la generazione energetica da fonti rinnovabili con le relative infrastrutture.
Tertium non datur.
Helionomics. La libertà energetica con il solare
di Mario Pagliaro
Egea, 2018
Pp.139