“Ho ideato l’iniziativa per offrire un’opportunità concreta ai territori esclusi da Matera 2019”. Così raccontava, anni fa, Dario Franceschini. Era il 2015, e da poco l’Italia aveva celebrato la sua prima – e finora unica – Capitale europea della Cultura. L’eco di Matera era potente, ma il rischio che quell’esperienza restasse un’eccezione era reale. Per evitarlo, nacque il titolo “nazionale”, con una prima edizione condivisa tra dieci città non selezionate per l’Europa. Doveva essere un risarcimento. Dieci anni dopo, il dispositivo è diventato uno dei rari meccanismi strutturali di politica culturale del Paese, con un bando ministeriale annuale, un milione di euro in palio.
Con il passare degli anni, la posta in gioco è però cambiata. Le città non si candidano più solo per ottenere risorse o attrarre turismo. La candidatura è diventata un’occasione per riscrivere la propria narrazione pubblica, per produrre uno scarto simbolico rispetto all’immagine dominante. Il vero premio, oggi, è la possibilità di rimettersi al centro, magari con una nuova veste, di un discorso nazionale.
Agrigento, che riceverà il testimone nel 2025, incarna bene questo snodo. Città museo per definizione, ha deciso di raccontarsi non attraverso la bellezza, ma attraverso il conflitto tra bellezza e abbandono. Il suo dossier lo dice esplicitamente: “La Valle dei Templi non basta”. Serve una nuova grammatica per parlare del presente, per immaginare una relazione più viva tra patrimonio e cittadinanza. In gioco c’è non solo una rigenerazione culturale, ma una trasformazione del modo in cui Agrigento viene letta dal resto del Paese.
Nel 2026 sarà la volta de L’Aquila. Dopo il terremoto del 2009, L’Aquila è diventata un simbolo fragile e ingombrante, città da compatire, da ricostruire, da aiutare. Oggi prova a scrollarsi di dosso quella narrazione emergenziale, e usa la cultura per tornare a parlare con voce propria. Il progetto è uno dei più esplicitamente civili tra quelli visti finora, e mira non tanto a “fare eventi”, quanto a ricucire il tessuto urbano e sociale, “rimettendo in circolo energie collettive”.
Poi c’è Pordenone, vincitrice per il 2027. La città del Nordest ha un progetto sobrio, quasi antispettacolare. Il sindaco Ciriani lo dice senza giri di parole: “Non chiediamo attenzione. Chiediamo che si noti ciò che abbiamo già costruito”. Qui la cultura non è promozione, è un modo per riemergere da un’immagine riduttiva di città efficiente, ma senza anima.E anche qui, in fondo, la candidatura ha servito a produrre un cambio di sguardo.
Ed è proprio questo il tratto comune che si coglie, con crescente chiarezza, leggendo le candidature al titolo: le città non competono per spettacolarizzare ciò che sono, ma per affermare ciò che vogliono diventare. Tra le candidate non selezionate per il ‘27, Gallipoli e Alberobello, ad esempio, provano a emanciparsi dai propri cliché turistici. Brindisi si propone non come scalo, ma come nodo. Tutte, in modo diverso, usano la cultura come leva per spostare la percezione.