Nel 2019 Matera si prendeva la scena. Capitale europea della cultura, città simbolo del riscatto di un Sud capace di raccontarsi con orgoglio, visione e radicamento. A distanza di cinque anni, mentre l’Italia si prepara alla candidatura per il titolo del 2033, la domanda sorge spontanea, che ne è stato del “modello Matera”? Quali tracce ha lasciato quell’esperienza? E soprattutto, che cosa può impararne chi oggi si candida a fare della cultura un progetto di trasformazione?
La risposta, sorprendentemente, non è fatta solo di numeri – pur significativi – su turismo e presenze museali. È fatta di persone, competenze, progetti che continuano a produrre cultura ben oltre il 2019. A partire proprio da quella Fondazione Matera-Basilicata 2019 che, nata per accompagnare la candidatura, ha trovato il modo di rinnovarsi, rilanciarsi e restare operativa.
Due sono i lasciti più rilevanti dell’esperienza capitale, a detta della Fondazione: l’empowerment della scena creativa locale e l’attivazione della cittadinanza. Sul primo fronte, il cuore del programma 2019 non è stato importare eventi chiavi in mano, ma innescare una progettazione che partisse dal basso. I cosiddetti project leader – realtà culturali e artistiche della Basilicata – hanno costruito la metà del programma. Hanno imparato a gestire budget significativi, relazioni con enti internazionali, burocrazia e rendicontazioni. Molti di loro oggi siedono ai tavoli di reti nazionali e progetti europei. Chiaramente è un salto di qualità. Sul secondo fronte, la partecipazione civica non si è esaurita con le “celebrazioni”. I volontari culturali che avevano aderito al programma si sono costituiti in associazione autonoma nel 2021. Lavorano con realtà locali e internazionali, partecipano a eventi europei e ricevono formazione continua in ambito culturale. Cittadini diventati attivatori culturali.
Ma proprio quando bisognava iniziare a custodire quanto costruito, è mancato il tempo per prendersene cura. Prima la pandemia, poi il doppio cambio istituzionale: prima al Comune, poi alla Regione. Alla fine del 2019, il sindaco Raffaello De Ruggieri – figura chiave della candidatura – lasciava l’incarico. Alle elezioni del 2020 è stato eletto Domenico Bennardi, espressione del Movimento 5 Stelle, in un contesto politico completamente nuovo (De Ruggieri, ex Pri, poi presentatosi come civico appoggiato da liste di destra). Poco prima anche la Regione Basilicata era passata al centrodestra, con l’elezione di Vito Bardi. Una doppia transizione che ha avuto conseguenze profonde. “Non c’è stata la continuità politica e istituzionale necessaria a rafforzare l’impianto post 2019”, ammette Rita Orlando, responsabile della progettazione culturale della Fondazione. Il risultato? Progetti lasciati senza interlocutori, bandi incoerenti, strategie interrotte. “Alcuni processi si sono interrotti, altri non hanno trovato chi li accompagnasse”.
E le conseguenze si vedono anche nei numeri. Secondo il Ministero della Cultura, i musei statali lucani nel 2023 hanno registrato 165.346 visitatori: il 54% in meno rispetto al 2019. La provincia di Matera, che allora rappresentava il 42,5% del valore turistico regionale, nel 2022 è scesa al 36,6%. Il Ridola, il principale museo archeologico della città, ha dimezzato i propri ingressi in quattro anni. Dati che confermano le criticità sollevate da uno studio del Politecnico di Milano (Tourism in Matera: a resource or a problem?), secondo cui la città rischia di diventare un “heritage theme-park”, dove la cultura si consuma ma non si produce.
Torna così d’attualità anche un filone critico che ha accompagnato fin dall’inizio l’esperienza di Matera. L’Istituto Nazionale di Urbanistica, ad esempio, aveva già sollevato preoccupazioni sul rischio di “musealizzazione urbana”, la trasformazione dell’intera città in una vetrina, a scapito del suo tessuto vivo. Secondo l’INU, il successo simbolico della candidatura non sarebbe bastato. Senza politiche abitative, infrastrutturali e culturali di lungo periodo, il rischio era di rendere Matera una città di cartapesta, vuota di relazioni. Detto fatto potremmo dire alla luce dei dati sul calo dei visitatori e della frammentazione istituzionale post 2019. Va però ricordato che, nel pieno del 2019, il report ufficiale documentava l’attivazione di 131 spazi culturali, di cui 14 mai aperti prima: un’azione urbana concreta, visibile nel breve periodo. Ma a distanza di anni, manca un monitoraggio aggiornato che permetta di capire quanti di quei luoghi siano rimasti attivi. In quell’occasione l’Istituto aveva parlato della necessità di integrare la progettazione culturale con una visione urbanistica capace di agire sulle disuguaglianze e sul rapporto tra centro e periferia.
Eppure, qualcosa si è mosso. Per statuto, la Fondazione sarebbe dovuta restare in vita fino al 2020. Invece, il consiglio di amministrazione ha deciso di prolungarne l’attività fino al 2033. Un segnale politico e operativo. Oggi la Fondazione partecipa a bandi Pnrr, attiva collaborazioni con università e comuni, si candida a nuovi titoli. Tra cui quello di Capitale Mediterranea della Cultura, che nel 2026 vedrà Matera affiancata a Salonicco (Grecia). Anche sul fronte artistico, alcune traiettorie sono cresciute. “C’è un artista, Walter Pani, che nel 2018 era un ragazzo con idee visionarie e pochi strumenti — oggi espone e lavora in progetti transnazionali”, raccontano dalla Fondazione. Compagnie come Gommalacca Teatro o artisti come Giuseppe Valentino sono entrati in circuiti internazionali. “Il vero lascito è un modo diverso di fare progettazione culturale”, sottolinea ancora Orlando. “Ma serve una visione pubblica coerente, e politiche di accompagnamento strutturate. Non puoi tenere in piedi un ecosistema culturale se lo alimenti solo quando c’è un evento da celebrare”.